SIC Blog → Chi parla?

[In risposta a Il futuro della scrittura collettiva di Antonio Romano, pubblicato ieri su Scrittori Precari]

I discorsi sulla scrittura collettiva hanno la curiosa proprietà che presto o tardi vergono all’ontologico: sembra che non sia possibile sfuggire al fascino della domanda, se più persone hanno messo le mani sul testo, allora chi parla? La domanda ha una risposta banale, tautologica: è in ogni caso il testo stesso che parla; del resto è un marchingegno costruito per parlare, così come una casa è costruita per abitarci. A nessuno verrebbe in mente di chiedersi chi l’abita? per aver appreso che è stata costruita da una squadra di muratori. Più interessante è osservare il percorso compiuto dall’interrogativo per giungere a esprimersi nella sua forma più astratta. Più spesso che no, accade che la preoccupazione ontologica derivi da una di ordine per così dire legale, come nel caso dell’articolo di Romano. Citiamo:

“[Nella scrittura collettiva] vedo […] la conclusione […] di quella che mi piace chiamare “responsabilità creativa” che, come quella penale, vorrei fosse individuale.”

Il principio dell’attribuzione, per cui ciò che scrivo vale come se l’avessi detto e in certi casi quasi come se l’avessi fatto (vedi le fattispecie dell’apologia di reato, dell’istigazione a delinquere), è messo in imbarazzo dalla scrittura collettiva. Ricordiamo che l’attribuzione fu considerata già da Foucault uno dei quattro cardini dell’istituzione autoriale (Scritti letterari, Feltrinelli 2004, p. 11). L’autore non è un criminale, cioè non scrive discorsi che non devono essere scritti, perché è penalmente responsabile di ciò che scrive. Il fatto che una riflessione sulla scrittura a più mani possa ancor oggi risvegliare, in maniera anche molto naturale, associazioni con l’ambito “penale” non fa che evidenziare la precisione e la profondità della descrizione foucaultiana.

Stigmatizzare l’irresponsabilità dell’individuo nella scrittura di gruppo equivale, quindi, a sostenere la legittimità di un tribunale che giudica cosa deve essere scritto e come deve essere scritto, e a deplorare una pratica che ne ostacola il lavoro. Quel che è peggio, è che non si vede alcuna differenza sostanziale tra un tribunale “estetico” (che chiama a rendere conto della “responsabilità creativa”), e uno “etico” (che si occupa del penale): diciamo che il primo si preoccuperebbe più volentieri della forma, lasciando i contenuti più controversi al secondo. Una simile visione della letteratura è sconfortante, oltre che storicamente sorpassata, e lo è anche per Romano, il quale infatti risolve il problema con una soluzione draconiana:

“Direi che in certi casi si debba smettere di pensare che la scrittura collettiva alligni nella letteratura e iniziare a collocarla nella sociologia. Ma è una mia opinione.”

Non è forse lo stesso che dire, risparmiamo grattacapi ai critici e ai magistrati dichiarando l’irrilevanza dei discorsi collettivi? Se il loro unico interesse fosse sociologico, ne rimarrebbe ben poco, potremmo al limite non leggerli neanche e accontentarci di studiare le condizioni della loro possibilità (e da qui prendono le mosse tutte quelle trite considerazioni, in cui anche noi ci siamo spesso crogiolati, su ciò che viene “reso possibile da Internet” e simili). Ma soprattutto, la rimozione avrebbe le gambe corte, perché l’autore non è un cavaliere inesistente: tutta la sua armatura è costruita attorno a un problema assai serio, la duplice esigenza di valorizzazione e contenimento della forza dirompente della parola, elevata a potenze immense dalle tecniche di riproduzione. I discorsi hanno potere in quanto discorsi, non in quanto figli di un autore. E lo si voglia oppure no, il luogo in cui l’autore giostra e mette in uso tale potere è il campo letterario. Di questo vogliamo interessarci.

Il chi parla, osservato da dentro il campo, nel nostro caso dall’interno dell’opera collettiva, assume tutto un altro aspetto, diventa come suona la voce che parla? Suona come un grande coro? Come una piazza affollata? Come la mente di uno schizofrenico? Risuona di significati ulteriori per essere la voce di una moltitudine, oppure si appiattisce in una voce neutra, di anonimato? Tutte queste domande, e molte altre pertinenti e interessanti, non devono essere rivolte alla scrittura collettiva “in generale”, né a questo o quel metodo o tecnica, ma direttamente all’opera. Con il nostro metodo sono stati scritti e pubblicati molti racconti; è stato completato un romanzo (di cui ci auguriamo la pubblicazione): giudicate la SIC sulla base di questi.

commenti

ritratto di eFFe

Foucault è vivo e lotta

commento di eFFe (non verificato), 06/05/11 - 12:17

Foucault è vivo e lotta insieme a noi! :-)

(non mi convince ancora molto la nozione bourdieuiana di campo, ma per il resto sottoscrivo tutto!)

ritratto di newdran

Del testo in sé

commento di newdran, 08/06/11 - 22:54

Il fatto è che la critica letteraria è ancora troppo legata, oggi, ad un modo di "leggere" il testo che focalizza l'attenzione sull'autore (in quanto uno e unico dio creatore) e sullo stile, che è peculiare, specifico, unico. Ma siamo sicuri che sia questo l'unico modo di "leggere" un testo? Purtroppo la letteratura è per sua natura portata a fare autocritica, fino a mettere in crisi sé stessa, meno lo è, invece, la critica (letteraria e non). Non so, ad oggi, definirlo meglio, ma a volte ho quasi l'impressione che il critico pretenda di scandagliare il testo (qualsiasi testo) così come si faceva decenni fa, senza porsi il problema che forse sarebbe necessario utilizzare altri "strumenti", porsi altre domande che non siano le solite se di fronte si ha un testo collettivo o anche, ad esempio, un ipertesto. Ad esempio, un testo collettivo è un oggetto interessantissimo, a mio parere, per uno studio di letteratura comparata. Apro una parentesi: che c'entra la sociologia? Anche un martello può essere visto solo come oggetto da lavoro da un operaio, come oggetto composto da materiali diversi da un chimico, come arma del delitto da un criminologo. Allo stesso modo uno stesso testo può essere analizzato da un sociologo, da un critico letterario, da un linguista... dipende cosa vi si cerca, no? Ripeto, i concetti sono sicuramente da mettere meglio a fuoco, ma dopo aver studiato per un anno (attorno alla SIC e a molto del resto che si trova in rete) ho sviluppato riflessioni simili, che mi pare si sposino abbastanza bene con quanto riportato sopra. Notte.