SIC Blog → Partigiano Inverno: intervista a Giacomo Verri

È da poco uscito per Nutrimenti il (notevole) romanzo Partigiano Inverno, già finalista al Premio Calvino. Nell'ambito della nostra esplorazione delle narrazioni resistenziali contemporanee, il co-fondatore SIC Vanni Santoni ha intervistato l'autore Giacomo Verri.

Quando e come nasce la scelta di scrivere questo romanzo?

Nasce, l’idea, nell’estate del 2008, quasi per caso.
Questa l’idea di base: l’uomo contemporaneo sta di fronte al passato con un handicap: non lo ha vissuto. Non ne ha avuto esperienza. Per questo motivo l’unica salvezza per la memoria è il ricordo. Ma qual è la qualità di questo ricordo? Abbiamo bellissimi libri di memorie, e bellissimi romanzi sulla Resistenza. Forse troppi, tanto che ne abbiamo fatta l’abitudine, siamo avvezzi a narrazioni lineari che dicono per filo e per segno cosa è accaduto. Di fronte a questa assuefazione, io credo che, per trovare una storia che lasci il segno, ci si debba affidare o a una narrazione ironica o a una narrazione nauseante (alla Sartre), fastidiosa, a una scossa semantica che faccia sobbalzare il lettore. Per questo ho puntato molto sullo stile e ho cercato di utilizzare entrambi gli espedienti, da una parte inserendo qualche ritratto ironico, come quello del maestro Martino Gibella-Garampazzi (omaggio ai coniugi Gibella degli Alpinisti ciabattoni di Cagna), dall’altra utilizzando un linguaggio che, col procedere del romanzo, diventasse sempre più fastidioso, sul modello di Gadda (del quale riprendo il celebre “croconsuelo” nella “toma” elogiata da Jacopo)

Partigiano Inverno è stato finalista del Premio Calvino: quanto ha contato nel raggiungimento della pubblicazione?


È stato fondamentale, assolutamente fondamentale. Mi ha cambiato la vita, in un certo senso. Poiché le donne e gli uomini del Premio sono alla ricerca di scritture particolari, senza preoccupazioni di sorta a proposito dell’omologazione e della vendibilità, ecco che si sono gettati con entusiasmo sul Partigiano. Epperò devo essere sincero: in contemporanea, cioè ancora prima che venissi selezionato nella rosa dei finalisti del premio, già Riccardo Trani di Nutrimenti mi scriveva dicendosi interessato al testo.
Sicuramente non è un romanzo da spiaggia, facile, digeribile con un sorriso. Ci voleva proprio il coraggio del Calvino, di Nutrimenti, e di Benedetta Centovalli.

La prima cosa che colpisce nel tuo romanzo è la lingua, che appare come frutto di ponderate decisioni e diverse ascendenze: puoi illustrarle e motivarle?

La lingua è, a tutti gli effetti, il quarto personaggio del romanzo, dopo Italo Trabucco, Jacopo Preti e il piccolo Umberto Dedali. Lo sottolineo anche nel capitolo finale del romanzo, capitolo metanarrativo, almeno in parte: “Ho inteso il linguaggio come un protagonista che subisce un’evoluzione, più grande o evidente rispetto a quella dei personaggi. Col procedere del romanzo esso si carica come una valanga disordinata che rovina giù: diventa bizzarro, insanito, folle, espressionistico a furia di afrodisiaci dialettali e vocabolarieschi. Ho voluto strappare la faccia a certi ceffi, non con la lente ma col randello della deformazione e, al tempo stesso, col naso del clown, perché m’è parsa l’unica maniera di poter parlare – sempre fallendo – della ferocia e della morte, e di tempi e di uno spirito che non c’è più. Non con la vana speranza di riuscire a muovere qualcuno a pietà ma per dimostrare che oggi, di certe cose, non ci si riesce più a rendere conto”.
Il linguaggio è uno dei tanti filtri, il più evidente certo, che mi sono serviti per dar conto di quella letteratura dell’inesperienza di cui il romanzo vuole essere un simbolo. Inesperienza - alla Scurati – di un mondo anestetizzato, irrimediabilmente lontano dalle cose del passato, soprattutto se quelle cose sono la guerra, le tribolazioni fisiche viste da vicino, il freddo, la fame, il fatto straordinario della guerra.

Cosa significa narrare la Resistenza oggi?

Significa prendere coscienza dell’incolmabile divario che separa l’oggi da ieri. Significa porsi in un atteggiamento di umiltà, in un atteggiamento che vuole dire la difficoltà di raccontare oggi la Resistenza. E significa però anche la volontà etica di rimettere sotto agli occhi dei lettori un tema, certo abusato, e proprio per questo ‘rovinato’ dal troppo discorrervi intorno. Vuol dire cercare una via diversa dal solito per raccontarla, per cercare di farla vedere davvero con occhi diversi. Vuol dire impegnarsi, magari fallendo, ma impegnarsi. Significa ammonire a non accontentarci di forme di memoria esteriori e stereotipate.

Come si inserisce specificamente Partigiano Inverno rispetto a ciò,
e come si colloca rispetto alla letteratura resistenziale "classica"??

È un omaggio ai padri (Fenoglio, Calvino, Vittorini, Meneghello…) e una presa di distanza da essi: sarebbe stato inutile imitarli, imitarne il pathos, la freschezza della ‘carne’ contenutistica. È il libro del distacco, dell’impossibilità, dell’incapacità, forse, di essere ‘grandi’ come loro. E tuttavia è anche la testimonianza di tutto ciò – e i limiti sono molti – che può l’uomo, oggi, di fronte alla memoria. E’ una forma di impegno, certo privato (non più con la velleità di essere pubblico, collettivo) nei confronti della memoria. Scrivo nel finale: “Pensai che, se era difficile scrivere un romanzo ‘neorealista’ nel cinquantotto, doveva esserlo tanto più nel duemilaotto o nove o dieci. Difficile ma allettante e forse utile. Avanti avevo la necessità di raccontare al lettore d’oggi e a me stesso (che nulla so di un’arma, né cosa significhi dormire al gelo per mesi, né che effetti abbia sul fisico cibarsi poco e male) cosa facesse della gente comune coi fucili in mano, un letto gelido e pane duro come il ferro. Ero affascinato all’idea di narrare di un tempo in cui eroi e poeti stringevano sodalizi (nella milanese casa dell’architetto Filippo Maria Beltrami, futuro “Capitano” di una delle prime formazioni partigiane dell’Ossola, Montale andava a bere il caffè, e chiosava di suo pugno le poesie di Giuliana Gadola, moglie del “Capitano”), di un tempo in cui i soldi si vincevano proditoriamente – per chi faceva la spia – con le taglie sulla testa invece che coi quiz.
Volevo raccontare queste cose adesso che la memoria resistenziale fatica a resistere, in quest’epoca moralmente imbarazzante nella quale ci si imbarazza di fronte all’impegno”.
Aggiungo che, oltre alle numerose citazioni, anche i nomi dei personaggi sono omaggi ai classici. Sono nomi “parlanti”: Italo Trabucco si compone col nome di battesimo di Calvino o di Svevo (perché in fondo è un inetto), mentre il cognome lo prende dal soprannome che si dava Gianfranco Contini nello scrivere a Montale. Jacopo Preti, giovane sognatore romantico, si rifà a Jacopo Ortis e a Jacopo Belbo (l’eroe di Eco nel Pendolo di Foucault); Preti è un riferimento locale della Valsesia: Giacomo Preti fu un ribelle che, al principio, del XV secolo, combatté contro i notabili della valle. Umberto Dedali è ancora un riferimento a Umberto Eco che, nelle prime opere non scientifiche, si firmava Dedalus.

Tra i moltissimi scenari possibili per una vicenda resistenziale, hai scelto la Valsesia. Ci sono delle ragioni che vanno oltre il fatto che sei di quelle parti?

Direi di no. Se non che il luogo di origine di una persona è sempre il suo nido e anche il suo Altrove, quando quel luogo è pensato in una dimensione lontana nel tempo. Vista questa doppia faccia della medaglia, solo il luogo di origine può offrire quel senso di malinconia che ho cercato di stendere leggero lungo le pagine del romanzo.

Quali sono state le tue fonti storiche di riferimento?

Soprattutto ‘cose’ locali. In primo luogo la Bibbia della Resistenza in Valsesia: Il Monte Rosa è sceso a Milano di Moscatelli e Secchia (Torino, Einaudi, 1958). E poi le tante e tante pubblicazioni curate dall’Istituto Storico della Resistenza di Biella e Vercelli “Cino Moscatelli”. I libri di memorie di vari valsesiani, più o meno illustri.

Durante i lavori di “In territorio nemico” abbiamo avuto l'impressione che alcuni nostri personaggi volessero uscire dal mero contesto storico e dialogassero con la contemporaneità: che emergessero in loro – come in un sottotesto inevitabile in personaggi "nati oggi" – tratti contemporanei. Quali sono i tratti di Partigiano Inverno, se ve ne sono, che reputi riconducibili alla contemporaneità e alla sua narrazione?

Molti, spero. I personaggi, prima di tutto: hanno qualcosa di anacronistico nella loro incapacità di essere i protagonisti degli eventi. Sono lì, ma sono più vicino a noi, ai nostri complessi dubbi attorno all’azione, all’impegno, alla capacità di aderire al presente. Non solo perché vivono quella inesperienza di cui dicevo. Ma perché è l’uomo contemporaneo ad essere inesperto del mondo, perché troppo complesso, perché troppo infinito e troppo, a un tempo, accessibile. L’iperaccessibilità, la connessione perenne col resto del mondo, il villaggio globale con tutte le sue opportunità, ci annientano, annientano la volontà, la capacità critica, la nostra attenzione. Sì, l’attenzione, che non solo è la concentrazione fisica e mentale attorno a qualcosa, ma è anche la cura, l’atto gentile e affettuoso verso ciò che ci sta attorno.
A questo segue il tema del labirinto, già troppo usato, ma sempre valido. E la lingua che ne è la figura significante.